Gli anti-vegf hanno rivoluzionato il modo di gestire le maculopatie essudative. Ma siamo sicuri di fare il massimo per un corretto inquadramento diagnostico?

A cura di Massimo Nicolò e Daniela Zoli


Negli ultimi anni, la gestione e il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (DMLE) neovascolare si è modificata grazie all’introduzione degli anticorpi monoclonali diretti contro il fattore di crescita dell’endoteliale vascolare (VEGF). 
Importanti studi clinici che hanno utilizzato il ranibizumab (anticorpo monoclonale murino umanizzato contro il VEGF) hanno dimostrato in modo inequivocabile il netto miglioramento della acuità visiva rispetto al precedente approccio terapeutico con la verteporfina, utilizzata nella terapia fotodinamica (PDT), e rispetto alla storia naturale.
L’entusiasmo iniziale con cui gli oculisti retinologi hanno abbracciato l’uso dei farmaci anti-VEGF è stato anche in parte attribuibile al fatto che il trattamento aveva portato a risultati visivi, di efficacia simile, a prescindere dalla composizione della lesione neovascolare. 
In particolare, la risposta al trattamento con ranibizumab non sembrava essere influenzata dalla composizione della lesione (interamente o prevalentemente di tipo classico o occulto).

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